Una donna veniva ricoverata in ospedale a causa di alcuni sintomi legati all’uso di lassativi prescritti dal medico curante. Dopo un esame ecografico, da cui emerge il dubbio su una massa di circa 7 centimetri che fa sospettare una neoplasia, i sanitari programmavano un esame endoscopico, ossia una gastro-duodeno endoscopia. Avvisavano la paziente e le due figli della necessità di questo esame e lo eseguivano.

Purtroppo, pero, nel corso della gastroscopia, il medico operante notava una perforazione delle pareti, ed interrompeva immediatamente l’esame, ma in quello stesso istante, la donna andava in arresto cardiaco; pur tentata la rianimazione, la donna decedeva.

A seguito della denuncia delle figlie della donna deceduta, si apre un procedimento penale per omicidio colposo; il pubblico ministero incarica inizialmente un primo perito, che, ritenendo di dover fare a meno dell’autopsia, conclude con una valutazione di incertezza circa le cause del decesso. Conclusioni, queste, che inducono il pubblico ministero ad una prima richiesta di archiviazione.

Proposta opposizione all’archiviazione, il giudice per le indagini preliminari, richiede al pubblico ministero un supplemento di consulenza tecnica. Anche tale supplemento depone per l’insufficienza di elementi che consentono una affermazione certa delle cause della morte, a causa della mancata esecuzione dell’autopsia. Si propone nuovamente archiviazione e segue l’opposizione, fino alla terza definitiva richiesta di archiviazione.

Le figlie della donna iniziano una causa civile, addebitando ai medici diversi profili di responsabilità: a) avere procurato una perforazione gastrica nell’esecuzione della endoscopia; b) non avere prestato poi i soccorsi necessari o l’assistenza necessaria quando la paziente era andata, a causa di quella perforazione, in arresto cardiaco; c) non avere richiesto ed ottenuto consenso informato.

Il tribunale adito manda la causa in decisione senza procedere ad istruttoria, decidendo che, da un lato, la mancata effettuazione della autopsia rendeva non assolto l’onere della prova quanto al nesso di causalità e che, per altro verso, la domanda di risarcimento iure proprio delle due ricorrenti era prescritta, in quanto avente titolo in una responsabilità extracontrattuale, e non già contrattuale, soggetta al termine quinquennale di prescrizione, e neanche a quello più lungo da reato, per via del mancato accertamento di quest’ultimo.

Il tribunale riteneva che l’omessa esecuzione della autopsia ostacolava l’accertamento delle cause della morte, nel senso che non vi era prova alcuna del nesso di causalità.

Secondo le figlie della donna deceduta, invece, vi erano agli atti elementi da porre a base di una presunzione, ed in particolare la circostanza che la perforazione non vi fosse prima dell’intervento, dato inoppugnabile; che non vi era alcun elemento a favore di un carcinoma gastrico che potesse incidere sulla permeabilità dei tessuti; che anzi i tessuti risultavano come ispessiti e non già più deboli.

La Corte di cassazione ricorda che l’accertamento del nesso di causalità, nel senso di probabilità che la causa dell’evento sia quella, può essere raggiunto anche mediante presunzioni, e non necessariamente attraverso prove dirette.

Nell’uso di queste presunzioni, devono considerarsi tutti gli elementi indicativi emersi dalla istruttoria, e non solo alcuni di essi; gli elementi assunti come indicativi devono poi essere gravi precisi e concordanti.

Nel caso in esame, il tribunale indicava a presunzione della incertezza sul nesso eziologico la circostanza che non fosse stata effettuata un’autopsia nella indagine penale, omissione che rendeva la valutazione dell’accaduto. Quest’unico dato fa concludere il tribunale nel senso che non vi è prova del nesso di causa tra la morte e la condotta dei sanitari.

Afferma la Suprema Corte che “il ragionamento presuntivo, che tra l’altro utilizza a sostegno dell’inadempimento delle ricorrenti un elemento estraneo alla loro disponibilità, come l’autopsia, è incompleto in quanto esclude l’esame di ogni altro elemento indiziario proposto dai ricorrenti”. Invece, l’inesistenza, prima della indagine endoscopica, di una qualsiasi lesione, la mancanza di elementi per ritenere che vi fosse un cancro in atto, la qualità delle pareti gastriche, sono tutti dati di cui, nel raggiungere presuntivamente la convinzione che il nesso causale era da escludersi, il tribunale non considerava.

Continua la Corte affermando che “Il giudizio probatorio sul nesso causale avrebbe dovuto essere condotto con l’ausilio di presunzioni che tenessero conto di tutti gli elementi indicativi esistenti in atti ed utilizzabili per la decisione, anziché assumere come dirimente un dato indicato nel decreto di archiviazione e porlo come esclusiva fonte di conoscenza”.

Avv. Annalisa Gasparre – foro di Pavia

Per approfondimenti, volendo, (2020) La responsabilità medica prima del giudizio: dalla mediazione all’accertamento tecnico preventivo quale condizione di procedibilità, in AA.VV., Responsabilità civile. vol. II, p. 2655-2678, Utet giuridica; (2019) Il nesso di causalità, in N. Todeschini (a cura di), La responsabilità medica, Utet giuridica; (2019) La colpa, in N. Todeschini (a cura di), La responsabilità medica, Utet giuridica; (2019) Il veterinario, , in N. Todeschini (a cura di), La responsabilità medica, Utet giuridica; (2019) Le fattispecie dolose, in N. Todeschini (a cura di), La responsabilità medica, Utet giuridica; (2019) Profili processuali, in N. Todeschini (a cura di), La responsabilità medica, Utet giuridica; (2018) La colpa penale del medico, II ed., Key editore.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 8 luglio – 15 settembre 2020, n. 19188 – Presidente Travaglino – Relatore Cricenti

I fatti di causa

F.L. viene ricoverata in Ospedale a causa di alcuni sintomi legati all’uso di lassativi prescritti dal medico curante.

Viene effettuato un esame ecografico, da cui emerge il dubbio su una massa di circa 7 centimetri che fa sospettare una neoplasia (aspetto a pseudo rene), inducendo i sanitari dell’Ospedale di (…) a programmare per il giorno successivo un esame endoscopico, ossia una gastro-duodeno endoscopia.

I medici avvisano l’interessata e soprattutto le due figlie, che avevano accompagnato la F. in ospedale, e precisamente B.T. e D. , qui ricorrenti, della necessità di questo esame e lo eseguono come programmato.
Se non che, nel corso della gastroscopia, il medico operante nota una perforazione delle pareti, ed interrompe immediatamente l’esame, ma in quello stesso istante in cui lo fa, la donna va in arresto cardiaco, si tenta di rianimarla, ma decede dopo circa un’ora e mezza.

Le due figlie depositano denuncia-querela, che fa instaurare una indagine per omicidio colposo, nella quale il P.M. incarica inizialmente un primo perito, che, ritenendo di dover fare a meno dell’autopsia, conclude con una valutazione di incertezza circa le cause del decesso.

Queste conclusioni inducono il P.M. ad una prima richiesta di archiviazione, con provvedimento del 21 novembre 2008 (il decesso era avvenuto il (omissis));

Le ricorrenti, figlie della deceduta, propongono allora opposizione, ed il Gip, accogliendo le loro osservazioni, richiede al P.M. un supplemento di consulenza tecnica, che il pubblico ministero dispone e che si conclude anche esso con l’affermazione che gli elementi disponibili non consentono una affermazione certa delle cause della morte, a causa della mancata esecuzione dell’autopsia. Il P.M. pertanto chiede nuovamente decreto di archiviazione.

A questa decisione segue una ulteriore opposizione da parte delle persone offese, un ulteriore ampliamento di indagini disposte dal GIP ed infine la terza e definitiva richiesta di archiviazione, accolta con provvedimento del 12 luglio 2011.

Le ricorrenti, allora, con citazione del 19 aprile del 2014 iniziano una causa civile, citando davanti al Tribunale di Torino la ASL (…), addebitando ai medici diversi profili di responsabilità: a) avere procurato una perforazione gastrica nell’esecuzione della endoscopia; b) non avere prestato poi i soccorsi necessari o l’assistenza necessaria quando la paziente era andata, a causa di quella perforazione, in arresto cardiaco; c) non avere richiesto ed ottenuto consenso informato.

Il Tribunale di Torino manda la causa in decisione sulla questione preliminare di merito della prescrizione della domanda e della mancata prova del nesso di causalità, dunque senza procedere ad istruttoria, cosi decidendo che, da un lato, la mancata effettuazione della autopsia rendeva non assolto l’onere della prova quanto al nesso di causalità e che, per altro verso, la domanda di risarcimento iure proprio delle due ricorrenti era prescritta, in quanto avente titolo in una responsabilità extracontrattuale, e non già contrattuale, soggetta al termine quinquennale di prescrizione, e neanche a quello più lungo da reato, per via del mancato accertamento di quest’ultimo.

La corte di appello, adita dalle ricorrenti, dichiara infine priva di possibilità di accoglimento l’impugnazione, giudicando inammissibile l’appello ex art. 348 ter c.p.c..

Ricorrono B.T. e D. con sette motivi, a quali si oppone la ASL (…) con controricorso.
Il ricorso ha ad oggetto la decisione di primo grado, essendo quella di appello resa ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c..

Le ragioni della decisione

1.- Il primo motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 2043 e 1218 c.c., nonché art. 2947 c.c..
La questione posta con questo motivo attiene alla prescrizione del diritto al risarcimento iure proprio delle figlie della F. .

Il Tribunale ha rinviato la causa in decisione ex art. 187 c.p.c. e dunque sulle questioni preliminari di merito, evitando l’istruttoria, perché ha ritenuto comunque prescritto il diritto delle attrici.

La decisione di considerare prescritto il diritto è basata su due rationes, che sono indipendenti l’una dall’altra da un punto di vista logico, anche se ovviamente il rigetto di una delle due implica superfluità dell’esame dell’altra.

Esse sono: a) il diritto al risarcimento del danno delle figlie della paziente deceduta è vantato a titolo di responsabilità extracontrattuale della Asl, e non già contrattuale. Le figlie non possono invocare a loro favore gli effetti protettivi (nei confronti di terzi) del contratto stipulato dalla loro madre con l’ospedale, in quanto gli effetti protettivi del contratto valgono, o meglio si producono, solo a vantaggio del nascituro e del di lui padre, mentre ogni altro parente, compresi come in questo caso i figli, non possono beneficiare di quegli effetti protettivi; b) il termine di prescrizione è dunque di cinque anni e non può beneficiare dell’allungamento previsto dall’art. 2947 c.c., in quanto il reato di omicidio colposo è stato escluso dal provvedimento di archiviazione.

Queste due rationes decidendi sono contestate dalle ricorrenti, quanto alla prima, osservando che il contratto di “spedalità” ha effetti protettivi verso i parenti, senza distinzione tra padre e nascituro da un lato, gli altri parenti dall’altro; anche questi ultimi sono da considerarsi ossia terzi protetti; quanto alla prescrizione, che essa opera solo in caso di accertata insussistenza del reato e non già in caso di archiviazione.
La seconda censura, quella relativa alla violazione dell’art. 2947 c.c., può essere accolta.
Ma non perché la responsabilità della ASL sia di natura contrattuale, conclusione questa che presuppone che il contratto, stipulato dalla madre,ha effetti protettivi nei confronti delle figlie, che dunque possono agire da contratto anche esse.

La figura del contratto con effetti protettivi verso terzi è utilizzata da questa corte solo con riguardo al contratto della gestante con l’ospedale, e dunque per riconoscere al padre del nascituro ed a quest’ultimo l’azione da contratto in caso di inadempimento, mentre è escluso che la figura possa servire in fattispecie diverse da quella (Cass. 11.5.2009, n. 10741; Cass. 18.4.2019, n. 10812; Cass. 20.3.2015, n. 5590; Cass. 8.7.2020, n. 14258).

Le acquisizioni di questa giurisprudenza vanno chiarite.

La figura del contratto con effetti protettivi verso terzi è giustificata con l’argomento che il terzo ha un interesse identico a quello dello stipulante, un interesse che viene coinvolto dalla esecuzione del contratto nello stesso modo in cui è coinvolto l’interesse della parte contrattuale, del creditore della prestazione. Nel contratto tra la struttura e la gestante, l’interesse di quest’ultima è la nascita del figlio: la donna si affida alla struttura sanitaria (o al medico) allo scopo di avere assistenza al parto.

L’esecuzione del contratto, si osserva, soddisfa (o lede, in caso di inadempimento) l’interesse dell’altro genitore allo stesso modo di come soddisfa (o lede) l’interesse della gestante contraente. Non v’è dunque motivo di riconoscere azione da contratto all’una ed azione da delitto all’altro.

Il tema merita ovviamente approfondimenti maggiori, che non possono qui farsi, ma queste osservazioni bastano ad escludere che la figura possa ragionevolmente essere utilizzata nella fattispecie: qui infatti l’interesse delle figlie non è il medesimo di quello dedotto in contratto dalla madre. Quest’ultima si era affidata alla struttura per la cura della salute, e l’inadempimento della obbligazione assunta dalla struttura ha leso due beni diversi: la salute, per l’appunto, della donna (o la vita, più precisamente), ed il rapporto parentale invece quanto alle figlie.

Manca, quindi, la ragione che giustifica la figura degli effetti protettivi verso terzi: l’identità dell’interesse coinvolto dalla esecuzione del contratto.

Invece, è da accogliersi l’altra ragione del motivo in esame, ossia il vincolo che per la prescrizione deriva dalla archiviazione del procedimento penale.

Infatti, qualora per un atto illecito, astrattamente configurabile come reato, sia intervenuto in sede penale decreto di archiviazione, il giudice civile non può sovrapporre alla veste formale di tale provvedimento una valutazione sostanziale ed equipararlo alla sentenza di proscioglimento, con conseguente applicazione dell’art. 2947 c.c., comma 3, seconda parte, poiché tale ultima norma non contempla l’archiviazione tra i presupposti che giustificano il regime ivi disciplinato (Cass. 6858/ 2018).
Ossia, la decisione resa in sede penale che impedisce l’applicazione alla domanda civile del più lungo termine di prescrizione, quello proprio del reato ipotizzato, è solo la sentenza irrevocabile, in quanto contiene un accertamento negativo del reato, accertamento che ha riflessi dunque sull’azione civile, escludendo che essa possa, per l’appunto, beneficiare del termine proprio di un reato insussistente; invece, il solo decreto di archiviazione non impedisce al giudice civile di compiere una propria valutazione circa la sussistenza o meno del fatto di reato, al fine di individuare il termine di prescrizione applicabile, che potrà essere o quello quinquennale di cui dell’art. 2947 c.c., comma 1, o quello maggiore eventualmente ricollegabile al reato, ai sensi della prima parte del comma 3, con decorrenza in ogni caso dalla data dell’illecito.

Va ovviamente sottolineato che, nella presente fattispecie, tra l’altro, il P.M. ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione in quanto la mancata esecuzione dell’autopsia rendeva difficile stabilire le cause del decesso. Si tratta non già dell’accertamento dell’insussistenza del reato, bensì della valutazione probabilistica che il P.M. fa circa le possibilità di sostenere in dibattimento l’accusa, ed una valutazione del genere ovviamente non può impedire al giudice civile di valutare, nel proprio ambito, l’astratta sussistenza del reato ai fini della prescrizione.

2.- Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 187 c.p.c..

Come si è accennato prima, il giudice di merito ha ritenuto che la questione della prescrizione, oltre a quella che si vedrà oltre relativa all’assolvimento dell’onere della prova, fossero assorbenti, ed ha dunque rimesso la causa in decisione, senza procedere ad istruttoria, decidendo poi la causa su ragioni diverse: in realtà aveva ritenuto di rinviare sulle questioni preliminari di merito della mancata specificazione della domanda di risarcimento, ma poi ha deciso la causa diversamente.
Le ricorrenti si dolgono del fatto che, avendo deciso di rinviare per la decisione su certe questioni preliminari di rito, il Tribunale ha poi fondato la decisione su altre, a dimostrazione dunque che il rinvio era infondato.

Il motivo, pur fondato, è però assorbito dall’accoglimento sia del primo, come abbiamo visto, che di quanto si dirà in ordine al terzo.

3.- Con il terzo motivo le ricorrenti denunciano violazione degli artt. 1218, 2727 e 2697 c.c., in relazione alla decisione del Tribunale di ritenere non provato il nesso eziologico, non assolto l’onere della prova.

Il Tribunale, in particolare, ha ritenuto che, come risultante dal decreto di archiviazione in sede penale, l’omessa esecuzione della autopsia ha impedito di accertare le cause della morte, ed in particolare se essa sia riconducibile alla perforazione occorsa durante l’esame endoscopico.
Ritiene il tribunale che alla luce di quel dato si può dire che non v’è prova alcuna del nesso di causalità.
Questa affermazione è contestata dalle ricorrenti con l’argomento che, in realtà, v’erano agli atti elementi da porre a base di una presunzione, ed in particolare la circostanza che la perforazione non vi fosse prima dell’intervento, dato inoppugnabile; che non v’era alcun elemento a favore di un carcinoma gastrico che potesse incidere sulla permeabilità dei tessuti; che anzi i tessuti risultavano, dato altrettanto pacifico, come ispessiti e non già più deboli.

Infine, le ricorrenti si dolgono dell’erronea applicazione della regola dell’onere probatorio, secondo cui la prova della mancata imputabilità della causa lesiva era a loro carico.

Il motivo è fondato, in particolare per quanto attiene alla denuncia di violazione dell’art. 2727 c.c..
Per comprendere la fondatezza di questa censura occorre considerare che, da un punto di vista probatorio, la regola fissata da questa corte quanto alla prova sufficiente del nesso causale è quella del “più probabile che no”, in base alla quale si considera raggiunto l’accertamento del nesso causale solo che emerga che è più probabile che il fatto indicato come antecedente abbia causato l’evento, anziché no.

Questo accertamento, ossia della probabilità che la causa dell’evento sia quella, può essere raggiunto anche mediante presunzioni, e non necessariamente attraverso prove dirette.

Lo stesso Tribunale ha fatto uso di presunzioni per ritenere non raggiunta la prova del nesso causale, ricorrendo alle valutazioni contenute nel decreto di archiviazione, che altro non erano se non elementi da cui il giudice civile ha tratto la convinzione che non si potesse giungere all’affermazione della condotta dei sanitari come causa del decesso.

Ma nell’uso di queste presunzioni, il Tribunale è incorso in violazione delle regole che presiedono al giudizio induttivo.

Esse sono riassumibili come segue: devono considerarsi tutti gli elementi indicativi emersi dalla istruttoria, e non solo alcuni di essi; gli elementi assunti come indicativi devono poi essere gravi precisi e concordanti.

Intanto, il Tribunale indica a presunzione della incertezza sul nesso eziologico la circostanza che non sia stata effettuata una autopsia nella indagine penale, la quale omissione ha reso incerta la valutazione dell’accaduto. E questo dato è assunto come l’unico su cui fondare la decisione: ossia, il Tribunale giunge alla conclusione che non v’è prova del nesso di causa tra la morte e la condotta dei sanitari utilizzando come unico elemento l’argomento che ha giustificato l’archiviazione in sede penale: che, non essendo stata effettuata autopsia non si potesse stabilire la causa del decesso, di cui di conseguenza non v’era prova sufficiente.

Il ragionamento presuntivo, che tra l’altro utilizza a sostegno dell’inadempimento delle ricorrenti un elemento estraneo alla loro disponibilità, come l’autopsia, è incompleto in quanto esclude l’esame di ogni altro elemento indiziario proposto dai ricorrenti (che ne danno conto in ricorso). L’inesistenza, prima della indagine endoscopica di una qualsiasi lesione, la mancanza di elementi per ritenere che vi fosse un cancro in atto, la qualità delle pareti gastriche, sono tutti dati di cui, nel raggiungere presuntivamente la convinzione che il nesso causale era da escludersi (o non era sufficientemente provato), il Tribunale non ha tenuto conto alcuno.

Il giudizio probatorio sul nesso causale avrebbe dovuto essere condotto con l’ausilio di presunzioni che tenessero conto di tutti gli elementi indicativi esistenti in atti ed utilizzabili per la decisione, anziché assumere come dirimente un dato indicato nel decreto di archiviazione e porlo come esclusiva fonte di conoscenza.

4.- Il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c..

Secondo le ricorrenti, il Tribunale ha del tutto omesso di pronunciare sulla domanda di risarcimento per violazione del consenso informato.

A dimostrazione di tale assunto, le ricorrenti citano proprio l’ordinanza di appello che rileva anche essa l’omissione di pronuncia, salvo ad emendarla con una propria.

Il motivo è dunque fondato.

Il Tribunale non ha pronunciato sulla domanda relativa alla violazione del consenso informato, neanche implicitamente, non potendo una qualche decisione in merito ritenersi implicata dalle altre, che attengono al diverso danno alla salute, il quale come è noto, è situazione autonoma rispetto al diritto tutelato dal consenso informato; autonomia che impedisce di considerare la decisione su quest’ultima implicata da quella sull’altra.

L’omissione è evidente dunque altresì alla luce del fatto che il consenso informato è validamente richiesto quando l’informazione è completa, ossia non è limitata al tipo di intervento da eseguire, ma è estesa alle ragioni ed ai rischi della scelta terapeutica, con la conseguenza che la decisione del giudice di merito circa il rispetto del diritto del paziente al consenso informato deve accertare che l’informazione abbia tali requisiti.

5.- Il quinto motivo denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c..

Secondo le ricorrenti il Tribunale nell’affermare che il decesso era “peraltro riconducibile verosimilmente alla neoplasia in atto” avrebbe posto a base della decisione un fatto non solo non provato, ma neanche allegato da controparte, violando in tal modo la regola per cui la decisione deve presupporre solo fatti emersi in giudizio.

Il motivo è inammissibile.

Infatti, l’affermazione contestata, secondo cui apparirebbe verosimilmente come causa della morte un cancro non costituisce la ratio della decisione impugnata, ma è piuttosto un suo obiter, non in grado di fondare la decisione, che ha la sua ragione nel difetto di prova circa la causa del decesso, accertamento, quest’ultimo, incompatibile con la tesi per cui la causa è invece nel cancro.

6.- Il sesto motivo denuncia violazione dell’art. 2700 c.c..

Il Tribunale ha dato rilievo al certificato di morte redatto dall’ufficiale dello stato civile circa le cause del decesso, nel quale veniva indicato il cancro tra le cause della morte.

Nel valutare quel documento, il Tribunale ha ritenuto che esso fosse assistito da fede privilegiata e che dunque le affermazioni circa la causa del decesso facessero fede in difetto di una querela di falso.

Le ricorrenti contestano quest’affermazione, osservando come non si trattasse di un certificato redatto dal medico, bensì dall’ufficiale di stato civile.

Il motivo è fondato.

Secondo l’art. 2700 c.c., l’atto pubblico fa fede della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto (circostanza questa non in contestazione qui) e del fatto che ciò che nel documento è attestato è avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che ha redatto l’atto.
Quest’ultimo effetto non può essere attribuito al documento in questione, come invece ritenuto dal Tribunale, in quanto l’ufficiale dello stato civile non ha assistito ovviamente al fatto, nè ha avuto diretta contezza delle cause del decesso, ma si è limitato a recepire le indicazioni, circa quelle cause, provenienti dai medici. Con la conseguenza che, quanto alla indicazione, nel certificato di morte redatto dall’ufficiale dello stato civile, di una determinata causa di morte, quel certificato non ha fede privilegiata e può essere smentito con ogni mezzo.

7.- Il settimo motivo riguarda il regime delle spese della decisione impugnata ed è dunque assorbito.

P.Q.M.

La corte accoglie primo, terzo, quarto e sesto motivo, dichiara inammissibile il quinto, assorbiti il secondo ed il settimo. Cassa la decisione impugnata e rinvia al Tribunale civile di Torino in diversa composizione anche per le spese.

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