La richiesta di sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, disposta nei confronti di un uomo, gravemente indiziato dei reati di concorso in detenzione illecita di sostanza stupefacente ed in estorsione, è stata rigettata.

Nella fattispecie la richiesta fondata sulla circostanza che l’indagato era padre di un bambino di un anno, con madre affetta da una patologia molto seria.

Ma secondo il tribunale le condizioni della donna non erano così gravi da renderle assolutamente impossibile l’assistenza della prole.

La legge prevede che non possa essere disposta nè mantenuta la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti della donna incinta o della madre di prole di età non superiore a sei anni, con lei convivente. Tale istituto può essere applicato anche al padre, ma solo laddove la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.

Tale divieto è frutto di un giudizio di valore operato dal legislatore, il quale stabilisce che prevale l’interesse del figlio minore a vivere e crescere nella propria famiglia, sull’esigenza processuale e sociale della coercizione intramuraria.

L’autorità statale, però, non rinuncia ad applicare qualsiasi misura cautelare, ma stabilisce come le esigenze possano essere soddisfatte da altre misure rispetto alla custodia carceraria.

Il codice di rito, dunque, stabilisce un vincolo di inadeguatezza della custodia cautelare superabile solo a seguito dell’accertamento della sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.

Secondo la Corte di cassazione, la decisione del tribunale non sembra avere come obiettivo primario l’interesse del minore, quanto, piuttosto, la finalità di sicurezza sottesa al mantenimento dello stato detentivo carcerario del padre; pertanto, il provvedimento è stato annullato con rinvio per nuovo esame.

Per approfondimenti, Gasparre, Presunzione di adeguatezza della custodia cautelare e tutela del minore, in Cassazione penale, Giuffrè, fasc. 9/2017, p. 3174

Avv. Annalisa Gasparre – foro di Pavia

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 22 settembre – 7 dicembre 2020, n. 34785 – Presidente Di Stefano – Relatore Silvestri

Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale dell’appello di Lecce ha confermato l’ordinanza con cui il Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale ha rigettato la richiesta di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, disposta nei riguardi di L.A., ritenuto gravemente indiziato dei reati di concorso in detenzione illecita di sostanza stupefacente ed in estorsione.

Secondo il Tribunale non sussisterebbero i presupposti previsti dall’art. 275 c.p.p., comma 4: L. sarebbe sì padre di un bambino nato nel (…) ma le condizioni della madre, affetta da una patologia molto seria (carcinoma infiltrante plurifocale di tipo duttuale alla mammella) e che vive da sola, non sarebbero tali da rendere assolutamente impossibile l’assistenza alla prole, non essendo la patologia in questione totalmente invalidante.

Secondo il Tribunale infatti il ciclo di chemioterapia – cui la donna è stata da ultimo sottoposta avrebbe fornito una “discreta risoluzione del quadro carcinomatoso; nè, si è aggiunto, sarebbe stato provato che la donna versi in una situazione economica tale da non consentirle di avvalersi di aiuti esterni e neppure che i genitori anziani della stessa non possano prendersi cura del bambino.

2. Hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dell’indagato articolando un unico motivo con cui si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione.

A differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, nella relazione medica prodotta nel procedimento ed allegata al ricorso si farebbe espresso riferimento alla assoluta impossibilità da parte della madre di occuparsi del bambino e sarebbe illustrata la situazione clinica di “notevole gravità” della donna; nè, si aggiunge, sarebbe stato spiegato perché la discreta risoluzione della chemioterapia rispetto alla patologia dovrebbe considerarsi di per sé sufficiente a consentire alla madre di assistere adeguatamente il figlio.

Secondo la ricorrente, la motivazione della ordinanza impugnata sarebbe viziata anche nella parte in cui si assume che la donna non avrebbe comprovato le sue situazioni economiche e la possibilità di assistenza da parte dei genitori; si tratterebbe di argomentazioni “esterne” ed inconferenti rispetto al dato normativo ed alla finalità perseguita dal legislatore che sarebbe solo quella di salvaguardare la integrità psicofisica dei soggetti in tenera età garantendo l’assistenza familiare.

L’impossibilità di cui alla norma sarebbe riferibile solo al soggetto chiamato a prestare assistenza.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato.

2. L’art. 275 c.p.p., comma 4, prevede che non possa essere disposta nè mantenuta la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti della donna incinta o della madre di prole di età non superiore a sei anni, con lei convivente.

Tale istituto può essere applicato anche al padre, ma solo laddove la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.

La norma indicata deve essere interpretata in conformità ai principi che reggono il sistema cautelare.

Il legislatore, nella logica delle puntualizzazioni applicative del principio di adeguatezza, ha previsto, operando in concreto un bilanciamento tra una pluralità di esigenze, che, ricorrendo in positivo o in negativo alcune condizioni soggettive, non sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere.

Le situazioni soggettive prese in considerazione riguardano persone che – per condizioni fisiche o psichiche – manifestano direttamente o indirettamente una pericolosità attenuata.

La Corte costituzionale ha espressamente chiarito che il divieto di cui alla norma in esame ha carattere generale, prescinde dal titolo di reato e non è riferibile alle sole ipotesi considerate all’art. 275 c.p.p., comma 3, (sentenze n. 239 del 2014 e n. 177 del 2009; ordinanza n. 145 del 2009).

Si è in presenza di una deroga – sia pur soggetta a condizioni e limiti- ai criteri che i commi precedenti del medesimo articolo dettano in tema di applicazione delle misure cautelari e, quindi, anche, ma non solo, alla presunzione legale stabilita al comma precedente (così, testualmente, Corte Cost. in sent. n. 17 del 2017).

Ha spiegato la Corte Costituzionale che il divieto in questione è frutto di un giudizio di valore operato dal legislatore, il quale stabilisce che, nei termini e nei limiti ricordati, sulla esigenza processuale e sociale della coercizione intramuraria deve prevalere la tutela di un altro interesse di rango costituzionale.
La giurisprudenza costituzionale ha cioè posto in particolare evidenza lo speciale rilievo dell’interesse del figlio minore a vivere e a crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione (cfr., tra le altre, Corte Cost. n. 239 del 2014; n. 7 del 2013; n. 31 del 2012), e ha sottolineato che le diverse situazioni giuridiche in cui si articola tale interesse trovano riconoscimento e tutela sia nell’ordinamento costituzionale interno, che demanda alla Repubblica di proteggere l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31 Cost., comma 2), sia nell’ordinamento internazionale, ove vengono in particolare considerazione le previsioni dell’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e dell’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Tali fonti sovranazionali qualificano come “superiore” l’interesse del minore, stabilendo che in tutte le decisioni relative al minore, adottate da autorità pubbliche o istituzioni private, tale interesse deve essere considerato “preminente”: precetto che “assume evidentemente una pregnanza particolare quando si discuta dell’interesse del bambino in tenera età a godere dell’affetto e delle cure materne” (in questi termini Corte Cost. n. 239 del 2014.).

Per i soggetti in questione, lo Stato non rinuncia ad esercitare una qualsivoglia forma di prevenzione attraverso l’applicazione di misure cautelari, ma stabilisce come le esigenze possano essere soddisfatte da altre misure rispetto alla custodia carceraria, in applicazione dei principi vigenti in materia.
L’art. 275 c.p.p., comma 4, manifesta dunque un vincolo normativo di inadeguatezza della custodia cautelare superabile solo a seguito dell’accertamento della sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.

Non è in contestazione, quanto alla ipotesi di padre di un bambino di età inferiore a sei anni, che l’impossibilità della figura materna debba assumere i caratteri dell’impedimento grave ed assoluto tanto che la madre potrà essere considerata assolutamente impossibilita, solo nei casi limite, ossia nelle ipotesi in cui le sue condizioni personali non le consentano in alcun modo di dare assistenza morale e materiale alla prole.

La locuzione “dare assistenza alla prole” ricomprende, si è notato in dottrina, “tutte le situazioni in cui la madre è in condizioni umane, familiari od economiche tali da offrire ai propri figli una forma assistenziale anche indiretta”.

Si è notato in dottrina come la valutazione del ruolo riconosciuto al padre possa in quale modo mutare a seconda dell’età del minore.

Con riferimento ai casi, come quello in esame, di bambini di un anno, si è evidenziato come la figura genitoriale di riferimento imprescindibile per il figlio sia la madre sicché il padre, che pure riveste un ruolo educativo fin dalla nascita del minore, assume, nella fascia di età zero-tre anni, una funzione diversa rispetto all’importanza centrale e nevralgica riconosciuta alla madre.

Tale ruolo costitutivo della madre cessa tuttavia nel caso in cui venga dimostrata l’inidoneità di questa ad adempiere al proprio ruolo, ossia nel caso di assoluta impossibilità a prendersi cura del figlio.
Dunque, una valutazione che deve avere come punto di riferimento preminente l’interesse del minore, la tutela del suo rapporto con la madre, l’esigenza di assistenza da parte del padre quando la madre sia assolutamente impossibilità a farlo, e cioè nelle ipotesi in cui le condizioni personali di questa non le consentano in alcun modo di dare assistenza morale e materiale alla prole.

In tale contesto parte della giurisprudenza ritiene che l’impedimento della madre sia neutralizzato laddove esistano figure parentali o strutture esterne in grado di supportare il ruolo materno e l’attività di accudimento del minore (in questo senso, Sez. 5, n. 8636 del 15/02/ 2008, Esposto Sumadele Biagio, Rv. 239042, ove si afferma che l’impossibilità assoluta “può essere esclusa quando (all’assistenza del minore) possa provvedersi mediante l’ausilio di altri parenti o di strutture pubbliche, sempre che tale ausilio abbia carattere meramente integrativo e di supporto e non totalmente sostitutivo dell’assistenza materna”; nello stesso senso, Sez. 1, 1. N. 8965 del 17/02/2008, Pipitone, Rv n. 239132).

Secondo altro indirizzo, l’operatività del divieto di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4, nei confronti del padre non può essere escluso per l’eventuale presenza di altri familiari o di strutture pubbliche o private di supporto (cfr., Sez. 6, n. 29355 del 30/04/2014, Astuccia, Rv. 259934; Sez. 4, n. 6691 del 19/11/2004, Roccaro, Rv. 230931, ove si precisa che agli altri familiari del minore “il legislatore non riconosce alcuna funzione sostitutiva, dal momento che la previsione è finalizzata alla salvaguardia dell’integrità psico-fisica dei figli in tenera età, garantendo loro l’assistenza da parte di almeno uno dei genitori”; Sez. 2, n. 47473 del 11/11/2004, Capizzi, Rv. 230802; Sez. 5, n. 41626 del 9/11/2007, Verde, Rv. 238209).

3. Il Tribunale di Lecce non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati per più ragioni.
Sotto un primo profilo, si è ritenuto non sussistente la condizione di assoluta impossibilità da parte della madre del minore di poter assistere il proprio figlio in ragione del fatto che nella relazione medica del 20.2.2020 predisposta prima che la donna terminasse l’ultimo ciclo di chemioterapia, i medici avessero riscontrato una “discreta risoluzione del quadro carcinomatoso presente nell’esame del 12.9.2019” (così il Tribunale a pag. 3).

Quella del Tribunale è un’affermazione instabile, perché, da una parte, adottata su base parziale, senza cioè tenere compiutamente conto dell’intero contenuto della consulenza medica predisposta nell’interesse del ricorrente – della quale è stata estrapolato solo una breve frase senza considerare nella loro globalità le considerazioni esposte dal medico – e, dall’altra, perché non chiarisce: a) quali fossero in concreto le condizioni psico – fisiche della donna al momento della decisione; b) in che misura la riduzione del quadro carcinomatoso consentisse di ritenere che il bambino potesse essere compitamente assistito dalla madre; c) sulla base di quali elementi si sia ritenuto che quella frase-contenuta in quel referto redatto il 20.2.2020 e valorizzata per rigettare l’appello cautelare – dovesse considerarsi attuale alla data del 4.5.2020, quando cioè è stata adottata la decisone impugnata.

Il Tribunale, così facendo, non ha dato conto, con puntuale e adeguato apparato argomentativo, del contenuto complessivo della documentazione medica prodotta e della consulenza della difesa.

Quella del Tribunale di Lecce è una decisione che, diversamente dai principi affermati dalla Corte costituzionale, non sembra avere come obiettivo primario l’interesse del minore, quanto, piuttosto, la finalità di sicurezza sottesa al mantenimento dello stato detentivo carcerario del padre dello stesso.
Nè appare condivisibile l’ulteriore assunto del Tribunale secondo cui la madre del minore potrebbe trasferirsi presso la abitazione dei suoi genitori: ove pure infatti si voglia fare riferimento all’indirizzo giurisprudenziale, di cui si è detto, secondo cui l’impedimento della madre deve essere escluso laddove esistano figure parentali o strutture esterne in grado di supportare il ruolo materno e l’attività di accudimento del minore, nondimeno nessun chiarimento è stato fornito sul se detto supporto nella specie avrebbe una funzione meramente integrativa e non totalmente sostitutiva dell’assistenza materna.
Sotto altro profilo, in tema di revoca e sostituzione delle misure cautelari, l’art. 299 c.p.p., comma 4-ter, prende in considerazione due distinte ipotesi: quella disciplinata dai primi due periodi, riguardante genericamente i casi in cui siano necessari, ai fini della decisione, accertamenti sulle condizioni di salute o su altre condizioni o qualità personali dell’imputato; e quella, più specifica, disciplinata dagli ultimi due periodi riguardante, tra gli altri, il caso in cui il giudice non ritenga di accogliere, sulla base degli atti, una richiesta di revoca o sostituzione della custodia cautelare in carcere fondata sulle condizioni di salute di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4.

In particolare, l’art. 299 c.p.p., comma 4 ter, prevede nel primo periodo che “in ogni stato e grado del processo, quando non è in grado di decidere allo stato degli atti, il giudice dispone, anche d’ufficio e senza formalità, accertamenti sulle condizioni di salute o su altre condizioni o qualità personali dell’imputato”.
In giurisprudenza si è chiarito in modo condivisibile come detta ipotesi, distinta da quella al terzo periodo, non si riferisca esclusivamente, come quella, ad una istanza motivata da ragioni di salute del detenuto.
Il dato testuale della norma “non è in grado di decidere allo stato degli atti” rivela la possibilità per il Giudice, che non sia in grado di trarre dagli atti ragionevoli elementi da utilizzare per la decisione, di disporre accertamenti, anche d’ufficio e senza formalità; e nulla esclude che l’iniziativa possa essere conseguente alla necessità di accertare le condizioni di salute della moglie e del figlio del detenuto, atteso che ciò può riverberare conseguenze sulla esatta individuazione della condizione personale dell’indagato.
L’art. 299 c.p.p., comma 4 ter, primo periodo, si riferisce infatti anche alle condizioni personali dell’imputato che sono distinte rispetto alle sue condizioni di salute; dunque, in ragione della necessità di accertare le condizioni personali del detenuto possono assumere rilievo non solo quelli circoscritti all’accertamento medico sulla sua salute, ma possono assumere valenza anche le condizioni familiari e quella genitoriale, che attengono alla condizione personale del detenuto (in tal senso, con specifico riferimento all’appello cautelare, Sez. 5, n. 41626 del 09/11/2007, Verde, Rv. 238208 secondo cui l’interpretazione indicata sarebbe imposta dalle ragioni che giustificano la norma, e cioè dall’esigenza di tutela un diritto fondamentale (la tutela psicofisica del bambino) di rilievo primario sicuramente non inferiore a quello della salute del detenuto, per di più riferibile a soggetto sicuramente incolpevole (suo figlio).

5. L’impugnata ordinanza deve dunque essere annullata con rinvio (al medesimo giudice) per nuovo giudizio alla luce dei principi indicati.

P.Q.M.

Annulla l’impugnata ordinanza e rinvia per un nuovo giudizio al Tribunale di Lecce, Sezione Riesame.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti previsti dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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