Un ex marito è stato condannato prima per maltrattamenti in famiglia e successivamente per atti persecutori, inflitti successivamente alla cessazione del matrimonio.

Nel caso in esame non vi è assorbimento di un reato nell’altro. Infatti, il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe quello di atti persecutori quando, nonostante l’avvenuta cessazione della convivenza, la relazione tra i soggetti rimanga comunque connotata da vincoli solidaristici, mentre si configura il reato di atti persecutori quando non residua neppure una aspettativa di solidarietà nei rapporti tra l’imputato e la persona offesa, non risultando insorti vincoli affettivi e di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale.

Il discrimine tra le due fattispecie è di natura sostanziale ed attiene alla possibilità o meno di configurare il permanere di un vincolo solidaristico tra i coniugi o tra i familiari, a prescindere dal dato della convivenza, poiché solo nel caso in cui detto vincolo si riveli comunque esistente è possibile configurare il reato di maltrattamenti. Qualora tale legame solidaristico e familiare non sia più attuale e non sia più configurabile neppure una qualche aspettativa al riguardo, il reato che deve ritenersi sussistente è quello di atti persecutori.

Nel caso scrutinato, è stata ritenuta configurata la fattispecie di stalking perché si è ritenuto che fosse stato interrotto e fosse cessato, dunque, qualsiasi vincolo o rapporto di tipo familiare e solidaristico tra l’autore del reato e la vittima. E poco importa se vi è stata una precedente condanna – anche – per maltrattamenti in famiglia.

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Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 17 marzo – 26 maggio 2021, n. 20861 – Presidente Sabeone – Relatore Brancaccio

Ritenuto in fatto

1. La Corte d’Appello di Roma, con la decisione impugnata, emessa il 5.6.2019, ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma del 5.6.2018 con cui M.B. è stato condannato alla pena di anni uno e mesi tre di reclusione in relazione ai reati in continuazione di atti persecutori ed a quelli di cui agli artt. 570 e 570-bis c.p. per aver cagionato, in particolare, un grave stato d’ansia e timore a R.G. , sua ex moglie separata, ed averla costretta a modificare le proprie abitudini di vita, molestandola e minacciandola reiteratamente, con pedinamenti, messaggi, telefonate, seguiti alla sua condanna per maltrattamenti nei confronti della donna, già passata in giudicato e rispetto alla quale la pena suddetta è stata calcolata in continuazione. L’imputato è stato condannato anche al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva di 10.000 Euro.

2. Avverso la sentenza predetta propone ricorso M.B., tramite il difensore avv. —-, deducendo quattro motivi di ricorso.

2.1. Il primo argomento di censura deduce mancanza o manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, che non avrebbe compreso i motivi d’appello nella loro reale portata, rispondendo unitariamente ai primi e decidendo per la sussistenza del reato di stalking, non rilevando nè violazione del divieto di bis in idem nè assorbimento delle condotte successive in quelle di maltrattamenti ai danni della moglie e del figlio, già giudicate con sentenza di condanna irrevocabile.

Il ricorrente ripropone, quindi, le ragioni di appello evidenziando anzitutto che le condotte già giudicate e quelle di stalking, in relazione alle quali è stato condannato nel presente processo, sono coincidenti, sicché sussiste bis in idem per l’identità dei fatti e, in via subordinata, rappresenta che, qualora si ritenesse, invece, l’ontologica diversità delle condotte suddette, quelle successive alla cristallizzazione del giudicato dovrebbero essere considerate comunque assorbite poiché espressive della prosecuzione del reato di maltrattamenti anche dopo la cessazione della convivenza matrimoniale.
2.2. Il secondo motivo di ricorso censura violazione di legge in relazione agli artt. 572 e 612-bis c.p..
La Corte d’Appello ha ritenuto che il reato di atti persecutori non fosse assorbito in quello già giudicato di maltrattamenti assumendo come discrimine la cessazione della convivenza e ritenendo che le condotte commesse successivamente a tale interruzione dovessero essere configurate come stalking.
Ed invece la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che anche dopo la separazione legale è possibile ritenere che prosegua la condotta di maltrattamenti quando non vi sia iato cronologico tra i momenti di esplicazione delle prime e delle seconde azioni solo apparentemente divise dalla cessazione della convivenza e dalla separazione, che non fa venir meno gli obblighi di rispetto ed assistenza. Si cita la sentenza n. 39331 del 2016 secondo cui il rapporto tra il reato di maltrattamenti e quello di atti persecutori aggravati dall’essere gli stessi rivolti al coniuge separato genera un concorso apparente di norme che deve essere risolto secondo il principio di specialità richiamato nella clausola di sussidiarietà contenuta nell’art. 612-bis c.p..

2.3. La terza censura attiene al vizio di motivazione riferito alla sussistenza degli elementi di fattispecie del reato di stalking, che l’imputato contesta quanto al verificarsi dell’evento costituito dallo stato d’ansia e timore della vittima oltre che dal punto di vista dell’elemento oggettivo del reato, segnalando anche in questo caso un equivoco da parte della Corte d’Appello, che avrebbe incongruamente ritenuto che l’impugnazione di merito non fosse rivolta ad eccepire anche la non configurabilità del delitto ascritto all’imputato per la mancata prova degli elementi tipici che lo compongono ed in ragione della incoerenza delle dichiarazioni della persona offesa, sia da un punto di vista intrinseco sia nel confronto con quelle di altri testimoni. Il ricorrente indica le ragioni di contrasto tra quanto raccontato dalla vittima e le testimonianze del loro figlio e della dottoressa che aveva in cura la sua ex moglie.

2.4. Infine, un ultimo motivo di ricorso deduce carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione avuto riguardo alla verifica di attendibilità della persona offesa e delle sue dichiarazioni, che non è stata svolta dalla Corte d’Appello.

3. Il Sostituto PG Dr. Vincenzo Senatore ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, affinché la Corte d’Appello valuti la sussistenza delle condotte già ritenute sussumibili nella fattispecie di atti persecutori e, in caso positivo, le riqualifichi nella cornice del reato di maltrattamenti già passato in giudicato, rimodulandone il tempus commissi delicti.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è complessivamente infondato.

2. Il primo ed il secondo motivo sono infondati e devono essere rigettati.

Non è configurabile, nel caso di specie, l’invocata operatività del principio di ne bis in idem.

La Corte d’Appello ha spiegato le ragioni sulla base delle quali è stato accertato che i fatti giudicati come reato di maltrattamenti e quelli in relazione ai quali oggi il ricorrente è sottoposto a processo non sono “i medesimi”: le condotte sono, infatti, diverse e collocate in un ambito temporale successivo rispetto a quello coperto dal giudicato.

La condotta di maltrattamenti già giudicata si ferma alla data contestata del 8.3.2015, mentre le azioni delittuose imputate sotto l’egida normativa del reato di atti persecutori sono state realizzate nel corso del 2016; queste ultime si riferiscono, dunque, e non potrebbe essere altrimenti da un punto di vista “naturalistico”, alla luce della loro collocazione temporale, ad ulteriori, diverse azioni materiali.

Si rammenta che, dal dictum della Corte costituzionale, contenuto nella sentenza n. 200 del 2016, e dalla pronuncia delle Sezioni Unite che ancora oggi rappresenta il canone interpretativo fondamentale in materia – Sez. U, n. 34655 del 28/5/2005, Donati, Rv. 231800, cui la Consulta ha inteso richiamarsi il fatto è il “medesimo” solo se riscontra la coincidenza della triade fenomenica “condotta-nesso causale-evento naturalistico”, e dunque quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e, ovviamente, quando sia coincidente con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.
Nel caso di specie, come si è già evidenziato, non sussiste identità delle circostanze di tempo e di luogo delle azioni delittuose che si vorrebbero proporre come “medesime”, e con tale dato di fatto il ricorrente non si confronta, riproponendo censure che scontano un certo grado di genericità, pur se pertinenti in linea (solo) teorica.

2.1. Anche il secondo motivo è privo di pregio.

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe quello di atti persecutori quando, nonostante l’avvenuta cessazione della convivenza, la relazione tra i soggetti rimanga comunque connotata da vincoli solidaristici, mentre si configura il reato di atti persecutori, nella forma aggravata prevista dall’art. 612-bis c.p., comma 2, quando non residua neppure una aspettativa di solidarietà nei rapporti tra l’imputato e la persona offesa, non risultando insorti vincoli affettivi e di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 37077 del 3/11/2020, M., Rv. 280431; Sez. 3, n. 43701 del 12/6/2019, G., Rv. 277987).
E tali affermazioni non sono in contrasto con quanto evidenziato dal ricorrente, pur sempre avuto riguardo agli orientamenti di questa Corte regolatrice, e cioè che le condotte vessatorie poste in essere ai danni del coniuge non più convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di atti persecutori, se ed in quanto i vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione permangano integri anche a seguito del venir meno della convivenza (Sez. 6, n. 3087 del 19/12/2017, dep. 2018, F., Rv. 272134).

Il discrimine tra le due fattispecie, infatti, disegnato dalla Corte di cassazione, è di natura sostanziale ed attiene alla possibilità o meno di configurare il permanere di un vincolo solidaristico tra i coniugi o tra i familiari, a prescindere dal dato della convivenza, poiché solo nel caso in cui detto vincolo si riveli comunque esistente è possibile configurare il reato di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p..

Resta inteso che, qualora tale legame solidaristico e familiare non sia più attuale e non sia più configurabile neppure una qualche aspettativa al riguardo, il reato che deve ritenersi sussistente, in presenza delle condizioni oggettive e soggettive del suo verificarsi, è quello di atti persecutori previsto dall’art. 612-bis c.p. (cfr., in senso analogo, Sez. 6, n. 30704 del 19/5/2016, D’A., Rv. 267942).

Nel caso di specie, correttamente la Corte d’Appello ha confermato la configurazione della condotta del ricorrente nel delitto di stalking poiché ha ritenuto, coerentemente alla sentenza di primo grado, cui si richiama espressamente, che fosse stato interrotto e fosse cessato, dunque, qualsiasi vincolo o rapporto di tipo familiare e solidaristico tra l’autore del reato e la vittima. A tale cesura, evidentemente, i giudici intendono far riferimento quando evidenziano, in modo sintetico ma icastico, la cessazione della convivenza tra i due, avendo già evidenziato, poco prima, lo iato temporale tra le condotte già giudicate, ferme al marzo 2015, e le nuove differenti condotte persecutorie, ispirate, per giunta, da un movente ritorsivo rispetto alla condanna riportata, proprio nel precedente processo, alla pena di tre anni di reclusione.

2.2. Così ricostruita la vicenda di fatto, e stabilite le coordinate ermeneutiche utili a sciogliere le questioni di bis in idem e di qualificazione giuridica proposte dal ricorrente, si rivela egualmente priva di fondamento la richiesta di ritenere assorbite le condotte di reato ulteriori e successive a quelle già coperte dal giudicato, configurate come maltrattamenti: ci si trova dinanzi, infatti, per quanto già esposto, ad una nuova campagna persecutoria messa in atto dall’imputato, correttamente inserita nello schema normativo dell’art. 612-bis c.p. poiché attuata dopo la cessazione di qualsiasi aspettativa solidaristica tra questi e la vittima, in qualche modo fondata sul precedente legame familiare o di convivenza e, dunque, sia ontologicamente, sia giuridicamente distinta da quella precedente e definita.
3. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso sono manifestamente infondati e costruiti, per molta parte, secondo profili di doglianza estranei al sindacato di legittimità.

A prescindere dalla circostanza, pure rilevante ai fini dell’inammissibilità, che una quota della censura proposta assume carattere di novità e, per ciò solo, andrebbe ritenuta inidonea a fondare una valida impugnazione in cassazione – il riferimento è all’eccezione relativa al non essere provato il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto ovvero al mutamento delle abitudini di vita della vittima del reato -, le ragioni del ricorrente sono apodittiche e non si confrontano con le coerenti conclusioni alle quali sono pervenuti entrambi i giudici di merito, quanto alla piena credibilità ed attendibilità della persona offesa querelante, utilizzando lo schema motivazionale integrato della doppia pronuncia conforme, che l’imputato sembra ignorare.

Il racconto della vittima, R.G., è stato giudicato preciso e puntuale, oltre che riscontrato anche documentalmente dal provvedimento provvisorio del Tribunale civile di Roma del 21.12.2016, relativo alla separazione conflittuale tra i coniugi, e da numerosa altra documentazione anche medica, puntualmente indicata nell’ampia motivazione del Tribunale in primo grado.

La lettura delle argomentazioni di tale sentenza, in particolare, consente di ritenere i motivi costruiti dal ricorrente del tutto scollegati dalle risultanze dibattimentali, quanto alla prova del reato di atti persecutori e di violazione degli obblighi di assistenza familiare. La prova è particolarmente ricca, per come ricostruita soprattutto dalla decisione di primo grado; si richiamano, tra tutti gli elementi: il racconto e la denuncia della persona offesa e della figlia – drammatici nel riferirsi alle pluriennali vessazioni ed ai ripetuti maltrattamenti subiti -; la testimonianza del figlio di costei, che ha confermato gli appostamenti e le invettive del padre nei riguardi della madre nonché l’inadempimento grave del ricorrente ai suoi obblighi verso la famiglia (tanto che lui stesso, studente universitario, era stato costretto a lavorare come cameriere per aiutare la madre e la sorella al sostentamento familiare); la testimonianza del maresciallo Ma., che aveva seguito le indagini e aveva personalmente letto ed acquisito i messaggi minacciosi e di ingiuria ricevuti dalla vittima sul suo cellulare da parte dell’indagato, accertando, altresì, che costei era stata costretta a cambiare luogo di lavoro per tentare di arginare la continua persecuzione dell’ex marito; la testimonianza della psicologa che ha avuto in cura per anni la vittima R.G., attestandone le gravi conseguenze psicologiche e fisiche patite come conseguenza del clima di vessazioni morali e materiali instaurato dall’imputato in casa.

Una congerie di elementi che non lascia, invero, alcuno spazio alle apodittiche e quasi fantasiose ricostruzioni del ricorrente, il quale tenta di screditare la vittima apportando argomenti tratti dall’istruttoria dibattimentale ma distorcendone completamente il significato (lamentando discrasie tra i racconti di alcuni testi, che non è dato ritrovare nella piattaforma istruttoria), quanto alla sussistenza, del tutto evidente invece, degli eventi alternativi previsti dalla disposizione incriminatrice dell’art. 612-bis c.p. (la vittima è stata costretta a modificare importanti sue modalità di vita, soprattutto il luogo di lavoro; ha subito gravi conseguenze psicofisiche in termini di ansia e paura dalla condotta dell’imputato; ha avuto fondato timore per la propria incolumità e quella dei propri figli, anche perché risulta che l’imputato in un’occasione abbia anche tentato di investirla con lo scooter).
Ed è noto che anche uno solo di tali eventi è idoneo alla configurabilità del delitto di stalking (cfr., per tutte, Sez. 5, n. 29872 del 19/5/2011, L., Rv. 250399; Sez. 5, n. 3781 del 24/11/2020, dep. 2021, S., Rv. 280331).

5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente che lo ha proposto al pagamento delle spese processuali.
5.1. Deve essere disposto, altresì, che siano omesse le generalità e gli altri dati identificati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

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