La sentenza in commento, oltre a precisare che per integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, dove per famiglia si intende anche la mera convivenza, non richiede necessariamente la stabilità, offre anche una panoramica del reato in sé, di sicuro interesse.

Nel caso di specie un uomo era stato condannato per avere maltrattato una donna con la quale aveva una relazione sentimentale con periodi di convivenza, ingiuriandola, minacciandola, percuotendola e procurandole lesioni.

Secondo i giudici, l’uomo attuò una serie di comportamenti oggettivamente umilianti e vessatori (pesanti ingiurie, minacce e violenze fisiche) per oltre un anno e mezzo così da condurre la vittima a intraprendere un percorso di affrancamento psicologico da lui.

La convivenza si era concretata con sette mesi di coabitazione con varie interruzioni. Da questo punto di vista, si è affermato che la stabilità della convivenza non è un requisito richiesto per la sussistenza del reato di maltrattamenti.

La Corte di cassazione ha precisato che il delitto di maltrattamenti in famiglia è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale. Invero, pur mancando vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente more uxorio con l’agente quando questi conserva con la vittima una stabilità di rapporti dipendente dai doveri connessi alla filiazione per la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza morale del figlio minore naturale derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale. Non solo non occorre che la convivenza sia ancora in corso, ma non è neanche necessario che tale convivenza abbia una certa durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità.

Le modifiche della disposizione introdotte dalla legge di ratifica (l. 1 ottobre 2012, n. 172) della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale del 25 ottobre 2007 (Convenzione di Lanzarote), hanno aggiunto i conviventi fra i soggetti passivi del reato, così da consolidare l’interpretazione giurisprudenziale pregressa che estende l’ambito di applicazione del dato normativo ai rapporti comunque caratterizzati da relazioni intense e abituali (para-familiari), da consuetudini di vita e di fiducia tra i soggetti, in condizioni paritarie o anche di soggezione di una parte nei confronti dell’altra.

Nondimeno, il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi resta collocato all’interno dell’undicesimo titolo del secondo libro del codice penale, titolo dedicato ai delitti contro la famiglia e, in particolare, nel capo quarto, intitolato “dei delitti contro l’assistenza familiare”.

Afferma la Corte che “secondo la dottrina prevalente, il bene giuridico tutelato dal reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi non è il nucleo familiare in sé (quale entità a sé stante, titolare di interessi propri distinti da quelli dei suoi componenti) ma l’integrità psico-fisica di coloro che, per età o per rapporti di tipo familiare o di affidamento, si trovino nelle condizioni di subire, proprio nei contesti in cui dovrebbero ricevere maggiore solidarietà, condotte di prevaricazione fisica o morale che la minino”; nel previgente codice penale del 1889, invece, “il reato di maltrattamenti era collocato (art. 391) fra i reati contro la persona, fra i quali, secondo gli auspici di parte della dottrina, andrebbe ricollocato”.

Quando il legislatore ha introdotto la locuzione “comunque convivente” nel testo della fattispecie ha esteso l’ambito di applicabilità a soggetti che sono uniti da rapporti diversi (anche distanti da quelli di famiglia), derivanti, per esempio, da situazioni di coabitazione tra persone che condividono spazi comuni o, comunque, di convivenza.

Convivenza e coabitazione, precisa poi la Corte, sono concetti fra loro differenti perché possono esservi relazioni di convivenza senza materiale coabitazione e situazioni di coabitazione che non comportano in alcun modo convivenza: il legislatore “nel regolamentare le unioni civili tra persone dello stesso sesso e nel disciplinare le convivenze qualifica (L. 20 maggio 2016, n. 76, art. 1, comma 36) i conviventi di fatto in termini in sé indipendenti dalla coabitazione, definendoli come due persone (maggiorenni) unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

Il legislatore ha precisato quanto era già approdo condiviso in giurisprudenza. Pertanto, in sintesi, ciò che assume rilevanza è l’esistenza di relazioni abituali fra il soggetto attivo e quello passivo (delle quali la materiale convivenza è solo un aspetto estrinseco del fatto originario costituito dal legame affettivo che produce una convivenza psicologica) determinate da continuativi rapporti o strette relazioni che dovrebbe generare rispetto e solidarietà e che, invece, diventano una precondizione delle sopraffazioni della personalità del soggetto passivo incompatibili con normali condizioni di vita.

La Corte conclude affermando che il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in presenza di un rapporto di convivenza di breve durata, instabile e anomalo, purché sia sorta una prospettiva di stabilità e un’attesa di reciproca solidarietà.

Avv. Annalisa Gasparre – foro di Pavia

annalisa.gasparre@gmail.com

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 11 febbraio – 7 maggio 2021, n. 17888 – Presidente Petruzzellis – Relatore Costanzo

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza n. 8500 del 2020 la Corte di appello di Milano ha confermato, ma concedendo le circostanze attenuanti generiche e rideterminando la pena, la condanna inflitta dal Tribunale di Milano a O.S.P.A. ex artt. 94 e 572 c.p. per avere maltrattato L.L. – con la quale aveva una relazione sentimentale con periodi di convivenza – ingiuriandola, minacciandola, percuotendola e ledendola nei modi descritti nel capo A delle imputazioni e ex art. 81 c.p., comma 2 e artt. 582 e 585 (con riferimento all’art. 576), e art. 61 c.p., n. 1, per averle procurato le lesioni descritte nel capo B delle imputazioni.

2. Nel ricorso e nelle conclusioni scritte presentate dal difensore di O. si chiede l’annullamento della sentenza deducendo violazione dell’art. 572 c.p. e vizio della motivazione per avere qualificato le condotte come maltrattamenti, in assenza di una stabile convivenza o di un rapporto para-familiare, e nonostante la breve durata del rapporto (sentimentale ma “finalizzato per lo più alla consumazione di rapporti sessuali”) fra l’imputato e la persona offesa.

Si evidenzia, inoltre, la mancanza dell’abitualità dei comportamenti vessatori e di uno stato di prostrazione fisica e morale della persona offesa come si desume anche dai contenuti del colloquio del 16 novembre 2016, in cui – dopo avere sporto le denunce che hanno dato origine al procedimento penale – la donna chiede insistentemente a O. di passare una notte con lui.

Considerato in diritto

1. Nell’escludere la mancanza dell’abitualità dei comportamenti vessatori e di uno stato di prostrazione fisica e morale della persona offesa richiamando il colloquio del 16 novembre 2016, il ricorso non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui si sottolinea che – al di là della circostanza che la donna fosse “succube del fascino o della attrazione sessuale che l’uomo esercita su di lei” – resta il fatto che l’uomo attuò una serie di comportamenti oggettivamente umilianti e vessatori (pesanti ingiurie, minacce e violenze fisiche) per oltre un anno e mezzo così da condurre la vittima a intraprendere un percorso di affrancamento psicologico da lui (p. 5).

2. Quanto alla durata, stabilità e natura della convivenza, deve registrarsi che nello stesso atto di appello si indicano sette mesi di coabitazione con varie interruzioni. Al riguardo, la sentenza di primo grado delinea una puntuale ricostruzione dei diversi momenti della relazione instauratasi fra l’imputato e la persona offesa: i due cominciarono a frequentarsi nel periodo natalizio del 2015 sino a convivere nel febbraio del 2016, ma il rapporto si rivelò conflittuale e, nella denuncia del 26 giugno 2016, la L. descrive le ingiurie, le minacce, le percosse a lei rivolte da O. , incline anche all’abuso di alcolici e a comportamenti aggressivi a sfondo sessuale; dopo la denuncia i due ripresero la relazione (caratterizzata da una intensa vita sessuale con pratiche anomale richieste dall’uomo e verso le quali la donna manifestò dissenso pur infine assecondando), trascorrendo assieme qualche notte per poi riprendere la convivenza verso la fine di agosto sino a una aggressione da parte di lui e a una lite, senza che, tuttavia, la loro relazione si interrompesse (anzi la L. accoglieva O. nella sua abitazione); nonostante le lesioni patite il 30 agosto 2016, la relazione ancora proseguì con una assidua frequentazione e, ai primi di ottobre, O. cominciò a portare le sue cose a casa della L. ; seguirono altri episodi di minacce e lesioni sino a quando la donna si recò presso la Polizia locale di Milano dichiarando di avere cambiato la serratura della sua abitazione per difendersi da O. , il quale continuava a ingiuriarla e a minacciarla per telefono.

3. La Corte di appello ha argomentato che la stabilità della convivenza non è un requisito richiesto per la sussistenza del reato di maltrattamenti. Ha, inoltre, richiamato i contenuti del colloquio in cui l’imputato, da un canto, si lamentò della violazione (con le denunce contro di lui sporte) della fiducia che egli nutriva verso la L. e questa, per sua parte, lo rimproverò per la mancanza di affetto che mostrava nel non accogliere la sua richiesta di rincontrarlo, così confermando la sussistenza di un rapporto non esclusivamente legato alle pratiche sessuali, come desumibile anche “dai vari tentativi di instaurare e mantenere stabile la loro convivenza” ai quali la sentenza impugnata (come anche quella di primo grado) fa riferimento in termini generici ma, comunque, senza contestazioni al riguardo nel ricorso in esame (p. 5).

In definitiva, dai dati acquisiti emerge che fra l’imputato e la persona offesa si instaurò un legame affettivo, influenzato anche dalla intensa attività sessuale, con una convivenza dalla durata breve – incostante e più volte interrotta per poi essere ripresa – ma significativa, per il mantenersi di una relazione di complicità, sollecitata dalla donna, pur dopo le denunce da lei sporte e l’intervento della Polizia e dell’Autorità giudiziaria.

4. L’art. 572 c.p. è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472).

In particolare, pur mancando vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente more uxorio con l’agente quando questi conserva con la vittima una stabilità di rapporti dipendente dai doveri connessi alla filiazione per la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza morale del figlio minore naturale derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale (Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017, I., Rv. 270673; Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, C., Rv. 262078).

In questo caso, nel rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis c.p., comma 1, (Sez. 5, n. 41665 del 04/05/2016, C., Rv. 268464; Sez. 6, n. 7369 del 13/11/2012, dep. 2013, M., Rv. 254026), il reato di maltrattamenti assorbe quello di atti persecutori anche in caso di avvenuta cessazione della convivenza se la tipologia della relazione fra l’agente e la persona indica il permanere di condizioni che richiedono solidarietà fra i due. Invece, si configura l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis c.p., comma 2) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), o determinati dalla sua esistenza e sviluppo, continuino nonostante la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare o comunque della sua attualità (Sez. 6, n. 8145 del 15/01/2020, S., Rv. 278358; Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D’A., Rv. 267942; Sez. 6, n. 7369 del 13/11/2012, dep. 2013, M., Rv. 254026).

Inoltre, per la configurabilità del reato ex art. 572 c.p., non solo non occorre che la convivenza sia ancora in corso, ma non è neanche necessario che tale convivenza abbia una certa durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione (Sez. 6, n. 5457 del 6/11/2019, dep. 2020, M., non mass.; Sez. 3, n. 44262 del 8/11/2005, Schiacchitano, Rv. 232904).

Basta, quindi, un regime di vita improntato a rapporti di solidarietà e a strette relazioni, dovute a diversi motivi (Sez. 3, n. 8953 del 03/07/1997, Miriani, Rv. 208444); come nel caso di una relazione sentimentale in cui vi sia stata un’assidua frequentazione della abitazione della persona offesa tale da far sorgere sentimenti di solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale (Sez. 5, n. 24688 del 17/03/2010, B., Rv. 248312) o come nel caso in cui con la vittima degli abusi vi sia un rapporto familiare di mero fatto, desumibile – in assenza di una stabile convivenza – dall’avvio di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza e caratterizzato da potenziale stabilità (Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, I., Rv. 255628). Similmente, il reato di maltrattamenti può configurarsi in una situazione di condivisa genitorialità, pur in assenza di ogni forma di convivenza, se la la filiazione non è stata solo un esito occasionale di rapporti sessuali ma abbia, almeno nella fase iniziale del rapporto, ingenerato una relazione affettiva con una aspettativa di solidarietà svincolata dagli obblighi giuridici connessi alla filiazione (Sez. 6, n. 37628 del 25/06/2019, C., Rv. 276697).

5. Le modifiche della disposizione introdotte dalla L. 1 ottobre 2012, n. 172 – che, nel ratificare la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale del 25 ottobre 2007 (Convenzione di Lanzarote), ha sostituito la rubrica dell’art. 572 c.p. con la formulazione attuale, ha aggiunto i conviventi fra i soggetti passivi del reato e ha inasprito le pene – hanno condotto la giurisprudenza a consolidare l’interpretazione che estende l’ambito di applicazione del dato normativo ai rapporti comunque caratterizzati da relazioni intense e abituali (para-familiari), da consuetudini di vita e di fiducia tra i soggetti, in condizioni paritarie o anche di soggezione di una parte nei confronti dell’altra (fra le altre: Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018, M., Rv. 272804; Sez. 6, n. 24057 del 11/04/2014, M., Rv. 260066; Sez. 6, n. 24642 del 19/03/2014, LG., Rv. 260063).
Nonostante queste modifiche, il reato di “maltrattamenti contro familiari e conviventi”, come denominato dall’art. 572 c.p., resta collocato all’interno dell’undicesimo titolo del secondo libro del codice penale, titolo dedicato ai delitti contro la famiglia e, in particolare, nel capo quarto, intitolato “dei delitti contro l’assistenza familiare”.

Secondo la dottrina prevalente, il bene giuridico tutelato dal reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi non è il nucleo familiare in sé (quale entità a sé stante, titolare di interessi propri distinti da quelli dei suoi componenti) ma l’integrità psico-fisica di coloro che, per età o per rapporti di tipo familiare o di affidamento, si trovino nelle condizioni di subire, proprio nei contesti in cui dovrebbero ricevere maggiore solidarietà, condotte di prevaricazione fisica o morale che la minino. Va ricordato, al riguardo, che nel previgente codice penale del 1889 (codice Zanardelli) il reato di maltrattamenti era collocato (art. 391) fra i reati contro la persona, fra i quali, secondo gli auspici di parte della dottrina, andrebbe ricollocato.

Su queste basi è stato evidenziato che il raggruppare alcuni reati all’interno del titolo dedicato ai delitti contro la famiglia si collega, in realtà, soltanto a uno degli scopi che ha guidato il legislatore nella rilevazione dei beni ai quali accordare protezione, per cui affermare che l’oggetto del reato di maltrattamenti è la famiglia significherebbe fallacemente confondere uno degli scopi della norma (donde il permanere della sua collocazione nel sistema del codice) con il bene giuridico tutelato (più ampio perché ricomprende non solo i rapporti “di famiglia” ma anche quelli “di famigliarità”) e le correlate persone offendibili, con le conseguenti implicazioni processuali riguardanti, per esempio, la legittimazione a opporsi alle richieste di archiviazione o a costituirsi parte civile).

Infatti, introducendo la locuzione “comunque convivente” nel testo dell’art. 572 c.p., comma 1, il legislatore ha esteso l’ambito della sua applicabilità a soggetti che sono uniti all’autore dei maltrattamenti da rapporti diversi (anche distanti da quelli di famiglia), derivanti, per esempio, da situazioni di coabitazione tra persone che condividono spazi comuni o, comunque, di convivenza.

A questo riguardo, è necessario precisare che “convivenza” e “coabitazione” sono concetti fra loro differenti perché possono esservi relazioni di convivenza senza materiale coabitazione e situazioni di coabitazione che non comportano in alcun modo convivenza.

Lo stesso legislatore nel regolamentare le unioni civili tra persone dello stesso sesso e nel disciplinare le convivenze qualifica (L. 20 maggio 2016, n. 76, art. 1, comma 36) i “conviventi di fatto” in termini in sé indipendenti dalla coabitazione, definendoli come due persone (maggiorenni) “unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

In realtà, già la giurisprudenza meno recente aveva considerato che nè la stabile convivenza nè la coabitazione sono presupposti necessari per il delitto di maltrattamenti (Sez. 3, n. 8953 del 3 ottobre 1997, Miriani, Rv. 208444), perché basta che intercorrano relazioni abituali tra il soggetto attivo e quello passivo, come nel caso, per esempio, della relazione fra un uomo e una concubina non convivente, con la quale non vi sia coabitazione ma soltanto un’abituale relazione sessuale (Sez. 6, n. 1587 del 18/12/1970, dep. 1971, Imbesi, Rv. 116811).

Quella che rileva, in sostanza, è l’esistenza di relazioni abituali fra il soggetto attivo e quello passivo (delle quali la materiale convivenza è solo un aspetto estrinseco del fatto originario costituito dal legame affettivo che produce una convivenza psicologica) determinate – per libera scelta o per condizionamenti interni o esterni di affetti e/o interessi – da continuativi rapporti o strette relazioni che dovrebbe generare rispetto e solidarietà e che, invece, diventano una precondizione delle sopraffazioni della personalità del soggetto passivo incompatibili con normali condizioni di vita.

Posto questo, la valutazione della riconducibilità del rapporto intercorrente fra l’autore e la vittima delle vessazioni al paradigma che si è sopra definito costituisce una quaestio facti, non valutabile in sede di legittimità se fondata su massime di esperienza ragionevoli e argomentata senza incorrere in manifeste illogicità (Sez.6, n. 79290 del 10/02/2011, B.A., non mass.).

6. Su queste basi – considerato che l’imputato e la persona offesa provarono più volte a costruire un rapporto duraturo (così manifestandone tangibilmente la necessaria tendenza alla stabilità) e a convivere, nonostante le conflittualità che emergevano – la breve durata del loro rapporto, con le sue peculiarità, e le interruzioni della loro convivenza non impediscono di configurare il reato di maltrattamenti (Sez. 6, n. 32156 del 22/07/2015, P.R., non mass.).

Può, quindi, enunciarsi il seguente di principio di diritto secondo il quale il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in presenza di un rapporto di convivenza di breve durata, instabile e anomalo, purché sia sorta una prospettiva di stabilità e un’attesa di reciproca solidarietà.

7. Pertanto, il ricorso risulta manifestamente infondato e dalla dichiarazione della sua inammissibilità deriva ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma alla Cassa delle Ammende che si stima equo determinare in Euro 3000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore del Cassa delle ammende.

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