Una lite tra vicini aveva generato una denuncia per atti persecutori. La situazione aveva coinvolto anche i figli della persona offesa e, dunque, i giudici hanno ritenuto integrata l’aggravante, rendendo il reato procedibile d’ufficio.

In particolare, si evidenziava che “la campagna persecutoria, dipanatasi con minacce e molestie insistenti ai danni del nucleo familiare dei suoi vicini di casa, non soltanto ha condotto le vittime in uno stato di prostrazione psichica, ma li ha costretti ad un mutamento di vita significativo, visto che si sono determinati a cambiare casa, vendendo quella contigua all’imputato, nonostante avessero ancora in corso il contratto di mutuo per il suo acquisto”.

La contestazione dell’aggravante avveniva in sede di udienza preliminare, ma per la Corte di cassazione ciò è legittimo e non viola il diritto di difesa dell’imputato. Ciò in quanto l’aggravante di aver commesso il reato in danno anche di minorenni è stata contestata in fatto sin dall’inizio del procedimento perché l’inserimento di specifici riferimenti ai figli minori delle persone offese all’interno dell’imputazione è di sicura ed immediata percezione.

Infatti, dalla lettura della contestazione testuale del delitto emergeva che “le offese e le minacce fossero rivolte direttamente ai figli minorenni della coppia di vicini di casa del ricorrente e che tali comportamenti li avessero soggiogati psicologicamente, tanto da indurli (insieme ai genitori) in uno stato di ansia ed agitazione”.

Nel caso di specie, nell’imputazione venivano valorizzati comportamenti individuati nella loro materialità, riferiti ai minori che siano stati coinvolti direttamente nella campagna persecutoria ed idonei a riportare nell’imputazione tutti gli elementi costitutivi della fattispecie aggravatrice, rendendo così possibile l’adeguato esercizio del diritto di difesa. La Corte infatti precisa che l’aggravante in parola “non implica alcun tipo di valutazione giuridica da parte della pubblica accusa, essendo collegata semplicemente alla constatazione dell’aver diretto gli atti persecutori nei confronti di minori, circostanza di fatto perfettamente leggibile nella complessiva imputazione formulata a carico degli imputati, sin dall’inizio del procedimento”.

Avv. Annalisa Gasparre, specialista in diritto penale, foro di Pavia

Cass. pen., sez. V, ud. 9 giugno 2022 (dep. 20 luglio 2022), n. 28668 – Presidente Caputo – Relatore Francolini

Ritenuto in fatto

1. Viene in esame la sentenza della Corte d’Appello di Messina che ha confermato la decisione emessa dal Tribunale di Messina il 27.9.2019, con cui M.I.M. è stato condannato alla pena di nove mesi di reclusione (oltre al risarcimento dei danni subiti dalle persone offese ed alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nei giudizi), per il reato di atti persecutori, aggravato ai sensi dell’art. 612 bis c.p., comma 3 commessi nel giugno 2013 ai danni della famiglia di A.G. , che viveva, con il marito F.P. ed i suoi figli, in un’abitazione vicina a quella dell’imputato, con il quale si erano creati contrasti per cattivi rapporti di vicinato.

La campagna persecutoria, dipanatasi con minacce e molestie insistenti ai danni del nucleo familiare dei suoi vicini di casa, non soltanto ha condotto le vittime in uno stato di prostrazione psichica, ma li ha costretti ad un mutamento di vita significativo, visto che si sono determinati a cambiare casa, vendendo quella contigua all’imputato, nonostante avessero ancora in corso il contratto di mutuo per il suo acquisto.

2. Ha proposto ricorso l’imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo due distinti motivi di censura.

2.1. Il primo argomento difensivo, riproponendo una questione processuale già portata all’attenzione di entrambi i giudici di merito, eccepisce violazione di legge in relazione alla contestazione dell’aggravante di aver commesso il delitto di stalking ai danni anche di minori, poiché essa è stata esplicitamente inserita soltanto in sede di udienza preliminare, mediante l’aggiunta del richiamo all’art. 612 bis c.p., comma 3, mentre l’imputazione notificata al ricorrente con l’avviso di conclusione delle indagini preliminari non vi faceva cenno.

Gli argomenti utilizzati dai giudici di merito per respingere l’eccezione relativa alla violazione del diritto di difesa – il ricorrente lamenta che non si sia potuto determinare correttamente in relazione alla scelta sul se accedere a riti alternativi – sembrano alla difesa insufficienti, poiché calibrati sulla correttezza della contestazione già in fatto dell’aggravante, per l’inserimento nell’imputazione di specifici riferimenti ai figli minori della coppia di vicini dell’imputato al centro della vicenda persecutoria. Ed invece, tale richiamo non sarebbe idoneo, secondo il ricorrente, a rendere chiara ed esplicita la contestazione dell’aggravante ad effetto speciale, poiché non si comprenderebbe se i minori erano o meno presenti nel momento in cui venivano pronunciate minacce ed offese nei loro confronti.

La difesa sottolinea gli effetti processuali negativi di tale interpretazione: la persona offesa F. aveva rimesso querela in relazione ad un procedimento instaurato innanzi al giudice di pace nei confronti dell’odierno imputato per reati di ingiuria e lesioni, commessi nel medesimo contesto, sicché tale remissione, in assenza della contestazione dell’aggravante che rende il reato procedibile d’ufficio, avrebbe dovuto essere considerata dai giudici di merito, ai fini dell’improcedibilità anche del delitto di atti persecutori, nato dalla medesima querela.

2.2. Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione di legge sia in relazione alla mancata decisione di improcedibilità per difetto di querela, nonostante i fatti persecutori in relazione ai quali l’imputato oggi è tratto a processo siano analoghi a quelli per i quali la medesima persona offesa F. ha rimesso querela il 12.7.2016 dinanzi al giudice di pace; sia perché vi sarebbe stata una non compiuta analisi della attendibilità delle persone offese ed una sopravvalutazione delle prove nonostante non vi siano stati accertamenti che confermino il realizzarsi di uno degli eventi del reato di atti persecutori. L’unico episodio di contatto fisico, già al centro del processo dinanzi al giudice di pace, chiuso dalla remissione di querela, non è sufficiente alla configurabilità del reato di stalking.

3. Il PG ha chiesto l’inammissibilità del ricorso con requisitoria scritta.

3.1. Il difensore dell’imputato, successivamente, ma tempestivamente, ha chiesto la trattazione orale del processo, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 convertito, con modificazioni, dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, e successive proroghe, ammessa dal Presidente Titolare della Quinta Sezione Penale.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Il primo motivo di censura è manifestamente infondato.

La Corte d’Appello ha correttamente evidenziato, quanto alle censure dedotte dall’imputato e riprodotte nel ricorso, che l’aggravante di aver commesso il delitto di stalking ai danni anche di minori – esplicitamente inserita nell’imputazione in sede di udienza preliminare, mediante l’aggiunta del richiamo normativo all’art. 612 bis c.p., comma 3, mentre l’imputazione notificata al ricorrente con l’avviso di conclusione delle indagini preliminari non vi faceva cenno – è stata del tutto legittimamente contestata in fatto sin dall’inizio del procedimento.

L’inserimento nell’imputazione di specifici riferimenti ai figli minori della coppia di vicini dell’imputato al centro della vicenda persecutoria è di sicura ed immediata percezione, a differenza di quanto sostiene il ricorrente.

Si comprende bene, infatti, dalla contestazione testuale del delitto, che le offese e le minacce fossero rivolte direttamente ai figli minorenni della coppia di vicini di casa del ricorrente e che tali comportamenti li avessero soggiogati psicologicamente, tanto da indurli (insieme ai genitori) in uno stato di ansia ed agitazione. Dall’istruttoria è emerso il diretto coinvolgimento dei minori nella campagna persecutoria, come vittime designate dall’imputato, il quale rivendicava, anzi, di mal sopportare nei vicini proprio i giochi rumorosi dei bambini.

Da un punto di vista interpretativo generale, poi, la contestazione in fatto, nel caso di specie, risponde ai criteri ermeneutici recentemente dettati in materia dalle Sezioni Unite, con la pronuncia Sez. U, n. 24906 del 18/4/2019, Sorge, Rv. 275436, che ha distinto tra aggravanti che abbiano o meno un contenuto “valutativo”, collegando solo alle prime la necessità di una formale contestazione, completa del richiamo normativo al nomen iuris, sicché, per le aggravanti prive di un contenuto valutativo, si è legittimamente potuto riaffermare l’ammissibilità della c.d. contestazione in fatto quando vengano valorizzati comportamenti individuati nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o ad oggetti determinati nelle loro caratteristiche, idonei a riportare nell’imputazione tutti gli elementi costitutivi della fattispecie aggravatrice, rendendo così possibile l’adeguato esercizio del diritto di difesa (così, condivisibilmente, Sez. 2, n. 15999 del 18/12/2019, dep. 2020, Saracino, Rv. 279335, in una fattispecie di truffa aggravata ai sensi dell’art. 61 c.p., comma 1, n. 7; vedi anche Sez. 3, n. 28483 del 10/9/2020, D., Rv. 280013 e Sez. 5, n. 1104 del 11/11/2021, dep. 2022, F., Rv. 282864).

Ebbene, anche per l’aggravante prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 3, che non ha contenuto valutativo, è ammissibile la sua contestazione “in fatto”, quando nell’imputazione vengano valorizzati comportamenti individuati nella loro materialità, riferiti ai minori che siano stati coinvolti direttamente nella campagna persecutoria ed idonei a riportare nell’imputazione tutti gli elementi costitutivi della fattispecie aggravatrice, rendendo così possibile l’adeguato esercizio del diritto di difesa.

E difatti, detta aggravante non implica alcun tipo di valutazione giuridica da parte della pubblica accusa, essendo collegata semplicemente alla constatazione dell’aver diretto gli atti persecutori nei confronti di minori, circostanza di fatto perfettamente leggibile nella complessiva imputazione formulata a carico degli imputati, sin dall’inizio del procedimento.

In conclusione, il Collegio ritiene che sia legittima la contestazione “in fatto” dell’aggravante prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 3, relativa all’aver diretto gli atti persecutori in danno di un minore, non trattandosi di aggravante a contenuto valutativo, purché nell’imputazione siano chiaramente evidenziati i comportamenti dell’agente che abbiano coinvolto il minore nella campagna persecutoria e siano stati commessi in suo danno.

2.1. Quanto al cenno che propone il ricorso alla lesione del diritto di difesa, che sarebbe derivata dal mancato, esplicito riferimento normativo all’aggravante nell’imputazione, e cioè la non corretta determinazione relativa al se accedere a riti alternativi, se ne deve rilevare la genericità, poiché non si specifica in alcun modo se vi sia stata richiesta di uno dei riti previsti da parte sua (con eventuali termini a difesa) ovvero quale fosse l’interesse del ricorrente segnatamente frustrato.

3. Il ricorso è del tutto generico nel secondo motivo proposto, che – da un lato – non chiarisce o specifica, nè produce, la sentenza con cui si sarebbe chiuso il giudizio dinanzi al giudice di pace che avrebbe coinvolto l’imputato ed una delle vittime, F.P. , per un episodio lesivo, in relazione al quale vi sarebbe stata remissione di querela (è stata depositata in allegato soltanto la citazione per quel giudizio); dall’altro, eccepisce l’improcedibilità dell’azione penale (e neppure la violazione del divieto di bis in idem) per un reato diverso, rispetto alle singole lesioni che sembrano al centro della parallela contestazione, quale è quello oggi in esame, essendo la vicenda persecutoria molto più ampia e complessa di quella evocata poiché ha interessato, peraltro, non soltanto F. ma sua moglie ed i suoi figli minorenni.

4. Alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso segue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente che lo ha proposto al pagamento delle spese processuali nonché, ravvisandosi profili di colpa relativi alla causa di inammissibilità (cfr. sul punto Corte Cost. n. 186 del 2000), al versamento, a favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000.

Deve essere disposto, altresì, che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.


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